Tutto è iniziato 10 anni fa quando nel 2007 mi sono imbattuto per caso nella Iditarod Invitational (ITI) www.iditarodtrailinvitational.com e ne sono rimasto subito folgorato. Dieci anni di focalizzazione su un obiettivo sono tanti. Servono disciplina, costanza e una incrollabile caparbietà per superare i mille ostacoli che la vita ci riserva. Ma serve anche tecnica e una buona dose di arroganza fisica.
Come si fa infatti a capire se il tuo corpo è pronto ad affrontare le interminabili notti dell'inverno in Alaska? Come si fa a capire se si avrà abbastanza tempra da superare il vento gelido che all'improvviso arriva congelando tutto quello che trova? Come si fa a capire se si avrà il giusto senso di orientamento in una terra immensa e ghiacciata dove non esistono tracce né punti di riferimento? Onestamente adesso che l'Iditarod l'ho portata a termine ve lo posso dire: non si è mai preparati fino in fondo ad un esperienza come questa. Ed è forse proprio in questa irrisolvibile incognita c'è tutto il fascino di questa avventura.
Conscio di tutto questo, il 20 febbraio (giorno del mio compleanno) sono partito per Anchorage. Sul posto niente a che vedere con il clima gioioso pre-gara di un Tor o di un UTMB. Ad Anchorage si respira freddo, tensione e consapevolezza di quello che si va ad affrontare. Si respira soprattutto paura e coraggio, che altro non è se non la capacità di guardare in faccia la paura e affrontarla. Mi rendo ancor più conto che in questa sfida non avrò spazio per errori e incertezze. Dovrò fare la scelta giusta nel momento giusto perché il freddo da queste parti non perdona. E non potrò improvvisare. Dovrò fare solo i movimenti testati in mesi e mesi di preparazione.
Nell'Iditarod infatti si va a sfidare l'ignoto da soli e aiutati solo dalle proprie forze. E ci vuole tanta fiducia nelle cose fatte per calarsi nel vuoto infinito della tundra gelida dell'Alaska. La ITI infatti ha la caratteristica di essere una gara in totale autonomia e unsupported. E questo significa che il percorso non è segnato e il soccorso e i rifornimenti non sono garantiti, ma soprattutto non sono forniti strumenti per lanciare un eventuale SOS. Per cui se ci si trova in difficoltà bisogna essere in grado di sopravvivere in un ambiente estremo come quello dell'inverno in Alaska lontano da tutto e da tutti.
Il giorno prima della partenza vado ad assistere al Briefing. Di solito è il momento in cui gli organizzatori raccontano le insidie del percorso e fanno appello alla prudenza dei concorrenti. Qui però è diverso. Il senso del briefing è questo: se siete qui voi ne sapete più di noi. Avete dichiarato di essere degli esperti del freddo artico, di sapere come equipaggiarvi per affrontare centinaia di chilometri d'inverno in Alaska per cui non abbiamo niente da dirvi. Sapete bene che le possibilità di soccorrervi sono prossime allo zero, anche perché non avrete con voi un sistema per lanciare un SOS. Per cui in caso abbiate un incidente, ve la dovrete cavare da soli. Dovrete basarvi sulle vostre capacità di autosoccorso e sopravvivenza. Nei check point ci saranno dei volontari, ma in quanto volontari siete pregati di non disturbarli con richieste, loro hanno il compito di tenere un registro dove voi vi dovrete ricordare di registrare il vostro passaggio.
Ottima come premessa! Guardo il gruppo dei concorrenti che ascoltano queste parole. Siamo in 69, 15 iscritti hanno deciso di non partire. Ci si guarda non si parla e si va dritti in camera a preparare la slitta per il giorno dopo. La mia slitta alla fine pesa 28kg inclusa acqua. Non m'importa che sia pesante. M'importa che dentro ci sia tutto il necessario per far fronte all'immensa distesa selvaggia che mi appresto a percorrere.
Il 25 febbraio alle ore 13.00 sono sulla linea di partenza in mezzo ad una immensa distesa di ghiaccio. Un rapido sguardo tutto attorno: siamo davvero in pochi. Tutto è scarno. Il freddo non ha colore, non è bianco, è un nulla pietrificato. Poi lo sparo e si va verso l'ignoto, certi che né la voglia di vivere l'avventura, né le esplorazioni sono finite.
Ovviamente sul percorso non ci sono le balisse, che danno sempre quella sicurezza di essere in traccia. Ci si deve basare sulle tracce di chi ti precede in bici o a piedi. E si capisce bene perché in questo ambiente il più grande regalo che possano farti è lasciarti una traccia! Oppure si cerca di vedere il GPS, su cui ho scaricato una traccia non ufficiale. Ma qui è tutto difficile e anche il movimento più banale come guardare il GPS richiede una buona dose di fatica.
Le prime miglia sono le uniche "caotiche" con bikers e sciatori che seguono un percorso e con concorrenti a piedi che si lanciano nel bosco. D'altronde il regolamento parla chiaro, non c'è alcun percorso da seguire, ma solo dei check-points a cui arrivare: il percorso è solo una tua personale interpretazione di questa terra.
Si alternano salite e discese e i tratti interni al bosco a cui seguono quelli esterni su fiumi e laghi ghiacciati. La temperatura oscilla drasticamente! Uscendo da un bosco ed entrando in una swamp (palude) ghiacciata esposta al vento, ho la necessità di dovermi togliere i guanti per aggiustare i tiranti della slitta. Concluso il lavoro in pochi istanti, le mani mi si ghiacciano e bloccano in una forma ad uncino per il freddo, riesco a tirare il "filo rosso" delle muffole da alta montagna che penzola dalla sacca sulla slitta e insultandomi a voce alta per l'idiozia di essermi sfilato i guanti riesco ad infilarmele con non poca fatica e a riprendere la corsa per far circolare il sangue. Pericolo sventato.
Nel pieno della prima notte, sotto un'intensa nevicata opto per la prima pausa. Prendo la sacca da bivacco, ci srotolo dentro il materassino e a seguire apro il sacco a pelo "Inferno" da temperature artiche. Un'ora e mezza di sonno e mi risveglio uscendo dalla coltre nevosa come fossi un SanBernardo beato nel suo ambiente.
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