giovedì 2 marzo 2017

La mia Rovaniemi 150: 42 ore in un deserto di ghiaccio








Max Marta, finisher a una delle gare più dure al mondo, ci racconta la sua avventura trai ghiacci della Lapponia. Tra slitte capricciose, freddo, sonno e qualche allucinazione.

La Rovaniemi150 è una corsa invernale che si svolge nella Lapponia finlandese (praticamente al Circolo Polare Artico), tanto che il claim inglese la definisce “Arctic Winter Race”. Tre sono le distanze possibili: la classica di 150km, la versione corta di 66km e quella extreme di 300km. Tutte e tre le versioni si possono percorrere a piedi, in bici (fat bike) o con gli sci.
Rovaniemi in realtà è famosa, prima di tutto, per essere la città dove ha sede il quartier generale di Babbo Natale, è qui che giungono le letterine di tutti i bimbi del mondo con le loro richieste di doni e giocattoli. E in effetti ci si ritrova fin dall’aeroporto in un festoso clima perennemente natalizio, che accoglie gli stranieri con una gigantesca slitta trainata dalle renne e decine di grandi peluche che creano un ambiente da fiaba. Ma la fiaba per noi che siamo lì per la gara dura poco: appena fuori dal Terminal siamo aggrediti da una ventata gelida e da un cielo plumbeo che non ci fa presagire niente di buono.

La preparazione
Ma al clima polare in un certo senso c’eravamo preparati psicologicamente, anche se in realtà un freddo del genere io non l’avevo mai sentito prima! Quello che invece ci terrorizza – nel vero senso della parola – è il briefing pre-gara. Inizia infatti con la lettura, infinita, dei motivi per cui si può venire squalificati. Per passare poi ad illustrare con una serie di foto spaventose gli effetti del freddo. Immagini di congelamenti avvenuti in gara: piedi mutilati e deturpati  “a temperature ben più miti di quelle che aspettano voi” ci rincuora il direttore di gara Alex Casanovas, un catalano trapiantato in Lapponia, che di professione fa la Guida Polare (vedi anche la mia intervista su Action Magazine). Per concludersi con un dettagliato piano di “evacuazione e pronto intervento”,  così tecnico e meticoloso, quanto difficile da leggere, che finirà comunque nella Pulka (ad aumentarne il peso!).



Finito il briefing passo alla più tipica delle attività pre-gara, ovvero quella di aprire, chiudere, riaprire, richiudere, fare e rifare da capo per almeno una decina di volte il borsone e lo zaino, ritenuti pressoché perfetti solo poche ore prima. Una volta deciso “Basta, il borsone così va bene!” passo alla fase “caricamento pulka” ovvero a cercare di fissare il borsone sulla slitta che ci dobbiamo portare dietro visto che questa gara è in totale autosufficienza. Vi sembrerà operazione da nulla, cosa ci vorrà mai a mettere una borsa su una slitta? E invece accidenti: è bastato non mettere in modo perfettamente bilanciato il peso per ritrovarmi in gara con una serie infinita di cappottamenti, giravolte, rovesciamenti della maledetta Pulka. Già ci vuole uno sforzo estremo per percorrere quei 150km in mezzo ad un ambiente così ostile, ma avere la pulka che invece che scivolare placida, sembra piuttosto un rinoceronte imbizzarrito, vi assicuro mette a dura prova anche il più zen dei trail runners, contribuendo per di più ad esaurire le già scarse energie.



La partenza
La mattina della gara, un meraviglioso cielo limpido ci accoglie e ci accompagna alla firma dei registri e alla linea di partenza. Clima festante, pacche sulle spalle, saluti e incoraggiamenti in tante lingue. Cerco di capire, dal colore dei pettorali, chi sono i concorrenti della corta di 66km e gli eroi della lunghissima da 300km. Partenza scarna ed essenziale ma velocissima sul fiume ghiacciato che ci porta verso Nord. Procedo al fianco del mio amico Paolo o, per dirla alla maniera dei ciclisti, ci offriamo scia reciproca, sfruttiamo l’uno la traccia dell’altro, cosa che io spiego essere usanza anche nello scialpinismo. Al primo ristoro entriamo e usciamo, superando un gruppetto di tre italiani che già si attarda e che verrà purtroppo decimato in gara, il solo Vincenzo Catalano, tra loro, giungerà al traguardo passandomi sull’ultimo rettilineo dopo 41 ore di gara.

Freddo tridimensionale
Il clima mite (anche se parliamo sempre di temperature attorno ai -10°) ci accompagna per tutto il giorno, anche se, come potete immaginare, le giornate a quelle latitudini non durano molto. E quando verso le 17.00 sopraggiunge il buio, il gioco inizia a farsi davvero duro. In quest’avventura ho constatato che il freddo non è un concetto assoluto che si esprime in gradi centigradi o celsius: no, il freddo ha almeno un’altra dimensione che è rappresentata dal numero di ore d’esposizione ad una determinata temperatura. Ero già stato in molte occasioni a temperature attorno ai -20 / -25 sul Monte Rosa o sul Gran Paradiso. Ma in quelle occasioni dopo circa 10/12 ore al massimo ero di nuovo dentro un caldo rifugio davanti ad una zuppa bollente! Stare esposto al freddo intenso per ben 42 ore cambia invece tutte le regole del gioco. Se a questo si aggiunge anche la mancanza di sonno, allora il freddo diventa una vera e propria tortura. La stessa temperatura affrontata durante la prima notte è assolutamente diversa dalla stessa temperatura affrontata dopo le 40 ore di esposizione nella seconda notte senza sonno. Va provato. Forse anche solo per questo vale la pensa di fare questa gara: per provare quello che ho definito il freddo tridimensionale. Ossia quello che si determina con temperatura, il tempo esposizione e le ore senza sonno.
Poi scende la notte

Un’altra caratteristica che rende davvero unica questa gara è la notte. Ad un certo punto Paolo se ne esce con: “Una città, abbiamo una città alla nostra destra”. “OK -mi dico- si comincia con le allucinazioni, certo un po’ presto…”. Ma la luce c’è, e si intensifica, sempre più grande, sempre più verde, inizia ad ondeggiare, a disegnare figure gigantesche e mostruose. Dopo un po’ capiamo che si tratta di un’aurora boreale! Ma lo spettacolo non finisce qui. Illuminando gli immensi alberi ghiacciati con la frontale, non si può non rimanere a bocca aperta: tutto il bosco è addobbato con decorazioni natalizie. Il ghiaccio sui rami brilla come se ci fossero migliaia di lucine intermittenti: un ambiente davvero magico.

Il mio primo obiettivo della gara è raggiungere il check-point al km79. Per raggiungere questo “shelter” che ha ben poco del rifugio, ma è l’unico in tutti i 150km con un tetto sotto cui possiamo ripararci, dobbiamo percorrere ben 35 interminabili km, senza poterci rifornire d’acqua o avvicinarci ad un fuoco. Come già detto questa è una gara in totale autosufficienza, e quando dico totale intendo proprio nel vero senso della parola. Nei pochi check point che ci sono c’è solo un fuoco e una riserva d’acqua (peraltro anche scarsa). E che differenza con i ristori ricolmi di ogni ben di dio delle basi vita nostrane! Arrivato vicino al famoso “unico check-point con un tetto” vedo che ci sono delle panchine nel casotto. Mi azzardo a chiedere se posso sdraiarmi per 10 minuti. Una volontaria mi guarda stralunata e mi risponde “Qui? Ma nooo è proibito!! Si dorme fuori sulla neve!!” Vabbè, pazienza: mi organizzo il secondo pasto caldo, almeno posso riscaldarmi qui un pochino!
Arrivano i primi dolori, ma si prosegue
Dopo la metà gara inizio a stringere i denti perché i dolori iniziano a farsi sentire dappertutto. L’effetto pulka è devastante. Ad ogni passo sento uno strattone all’indietro che dopo qualche decina di km impatta sulle anche, poi scende giù fino al ginocchio e qui si ferma diventando un dolore allucinante. Sono ormai al km115, ne mancano solo 35 e non ho nessuna intenzione di ascoltare un misero ginocchio, inutile. Quindi vado avanti. Mi sembra di aver spento la frontale solo da poche ore che devo di nuovo riaccenderla: è di nuovo notte. Un runner locale, passa e ripassa me e Paolo, torna indietro e ci fotografa, ci racconta i suoi allenamenti, i suoi obiettivi, mi sembra allucinato, ma forse lo siamo noi. A questo punto il dolore è sempre più inteso. Mando Paolo avanti con un altro concorrente e lo raggiungo al penultimo check-point. Poi lui allunga verso l’ultimo, che coincide con il primo dopo la partenza. Per raggiungerlo si traversa in piena notte un lago ghiacciato con tante luci e indicazioni difficili da decifrare. Mi dà serenità sapere che dietro ho almeno i tre italiani, anche se poi alla fine saprò che purtroppo due si erano già ritirati. Ultimo check-point, attimo di crisi profonda, firmo entrata e uscita, sono stanco, ho sonno, Paolo mi passa un caffè dal Thermos, forse, non so, mi sembra di ricordare così.
Poi partiamo insieme per concludere la gara. Sono le 23 di domenica 19 febbraio, si tratta “solo” di fare 11km e ho meno di 4 ore per stare nel tempo limite. Facile in condizioni ordinarie. Ma dopo 39 ore di esposizione a temperature artiche, con un ginocchio bloccato e dolorante e nel pieno della seconda notte senza dormire, gli 11km diventato davvero estremi. Ma vado avanti zoppicando e sognando un Genepy.
Sono arrivato, tanti auguri a me
Dico a Paolo di andare. Arriva la mezzanotte. E’ il 20 febbraio. E’ il mio compleanno. E io voglio un genepy. E sogno di camminare nella sabbia calda del deserto. Ho le allucinazioni, lo capisco e rido. Una gigantesca moto slitta mi scorta a distanza. Io vado a vanti come se fossi un sonnambulo. Sono le 02:58. Vedo persone che si sbracciano, che applaudono. Io stremato le ignoro, sprinto e vado in stato di trance a firmare il registro dell’arrivo. Sono le 02:59! Buon Compleanno Max!!! Finisher!!! E dopo la firma mi sono addormentato.
P.s. In realtà anche l’orologio che segnava le 02:59 era un’allucinazione, in realtà erano le 02:38. Avevo margine…
L’edizione 2017 si è corsa tra il 18 e il 20 febbraio. Alla gara dei 150km dei  59 iscritti 45 sono arrivati nel tempo limite di 42 ore. Dei 45 Finisher, ben in 24 (ovvero oltre la metà) hanno completato la gara su Fat Bike, tra questi il vincitore ha anche stabilito il nuovo record del percorso. Dei rimanenti 21, 18 erano runners e, curiosità, il più veloce tra gli uomini (l’italiano Gianluca Di Meo) ha anche battuto il primo uomo sugli sci. Gli altri 3 concorrenti rimanenti hanno completato la gara sugli sci: qui la prima e unica donna ha battuto i 2 uomini.


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